di Maddalena Oliva
Caro Luigi Farrauto,
da viaggiatrice a viaggiatore, ci terrei anche io a proseguire, con questo mio piccolo contributo,
la riflessione da te aperta. Diciamolo subito: il mio viaggio in Iran con la mia amica e collega Giulia Innocenzi è stato uno dei viaggi più intensi e densi di significato che abbia mai fatto (e un pochetto ho girato, magari non quanto te, ma un pochetto ho girato – spesso e volentieri sola – anche e soprattutto in Medio e Vicino Oriente). Questo, in primis, perché l’Iran è uno dei Paesi, con la sua storia e cultura plurimillenarie, più affascinanti e complessi che esista al mondo. Ma non solo. È uno dei Paesi dove più si respira una dualità fra vecchio e nuovo, una transizione costante che si percepisce ovunque nell’aria. E ti senti come stessi navigando, costantemente, sull’onda prima che si infranga. La storia del Paese è famosa per momenti di grandissima apertura subito seguiti da grandissime contrazioni: e da decenni la storia sembra sempre ripetersi. E oggi l’intero Paese è stanco, disilluso, risentito e in procinto di esplodere – ancora una volta – come un vulcano. Bisogna solo capire lungo quale faglia si romperà la crosta superficiale.
La cultura iraniana – non lo dico io, ma lo scrive magnificamente Jason Elliot nel suo “Specchi dell’invisibile. Viaggio in Iran” – è «piena di concetti ambivalenti, che incuriosiscono, rendono perplesso e irritano l’osservatore esterno, che in un primo momento non riesce a interpretarli» (pensa Luigi, Elliot, vincitore del Thomas Cook Travel Book Award e autore di best seller internazionale di narrativa da viaggio che sicuramente conoscerai, dedica ampie pagine per descrivere lo stupore di fronte ai tanti nasi incerottati delle donne incontrate, e addirittura racconta dello sfinimento e delle sòle inflitte dalle trattative infinite coi tassisti piuttosto che dai panettieri iraniani!! Che ingenuo radical chic, ovviamente affetto da orientalismo, anche lui, eh…).
Caro Luigi, sappiamo bene che in Iran, come in ogni altro Paese, esistono ombre e sfumature intermedie, che «si dileguano all’avvicinarsi della fredda lama dell’analisi, solo per riformarsi subito dopo», sempre per citare Elliot. Ma l’Iran, come nessun altro Paese forse, sfugge a qualsiasi tipo di schematizzazione: sia in un senso che in un altro. Non è certo la prima volta che mi muovo da sola in Medio Oriente, ti dicevo. Non mi è mai successo alcun episodio spiacevole, mai percepita sensazione di insicurezza, mai avuta paura. L’Iran, però, non è un Paese del Medio Oriente. E a crederlo, sì, siamo state ingenue. È un Paese a parte. E negli ultimi 30 anni che piaccia o non piaccia è un regime teocratico che si appoggia a una mano militare per rendere asfittica una situazione che preme, davvero come fosse una faglia tellurica, per esplodere.
Questo lo sapevamo ovviamente anche prima di partire, ma la cultura e l’arte della Grande Persia, insieme alle persone splendide che eravamo sicure di incontrare (e abbiamo infatti incontrato, moltissime), ci hanno spinto a visitare un paese in un momento di grande transizione, per coglierne anche le tante varie sfaccettature.
Bene. Mai, e dico mai, ho pensato di interrompere bruscamente un viaggio, perché mi sentissi non al sicuro. Eppure, dopo la prima settimana, ho pensato seriamente di andare via. Giulia questo non l’ha specificato, per una questione di eleganza, ma la vittima principale delle molestie sono stata io. Le palpate al sedere certo non mi hanno mai spaventato, ma qui parliamo di ben altro. Mi sono interrogata ogni giorno (e la mia compagna di viaggio con me), quando sono passata dal riderci su, al camminare raso muro per timore, al tenere lo sguardo basso per paura di incontrarne un altro, al non uscire più, su che cazzo stessi sbagliando. Non "sbagliavo" niente, semplicemente. Ho anche solo pensato avessi un karma particolarmente negativo che stava portando quello che pensavo fosse un semplice caso – eccome se l’abbiamo pensato, caro Luigi – a quotidiana routine... (per i primi 8 giorni ho avuto episodi giornalieri spiacevoli, e quando dico spiacevoli dico spiacevoli, le palpate le escludo). Quando sono stata tirata su da un uomo che arrivava da dietro col motorino, e che provava a caricarmi col cazzo già di fuori, mi sono immobilizzata, urinata addosso (nel senso letterale del termine, perdonami la durezza del dettaglio, ma ci tengo a dirlo ai quanti, mamma che schifo, anche alle quante, provano a mettere in dubbio le situazioni incontrate, defininendole elegantemente “surreali” nella migliore delle ipotesi, o addirittura chiedendone prova fotografica) e mi sono detta: ok, accettalo, qui c’è qualcosa che non torna. e non in te.
Non è ovviamente una stigmatizzazione degli iraniani (nel post, su questo, non vi è traccia minima di questo genere di generalizzazione), ma una consapevolezza che anni e anni di libertà represse, anche sessuali ovviamente, possono produrre anche questo: un desiderio costante di appropriarsi di una cosa proibita – il corpo della donna – al netto dell’impunità totale che vige nel Paese a riguardo. E sai che cosa mi hanno detto alcuni cari amici iraniani conosciuti durante del viaggio? Che la quantità e la violenza degli attacchi ricevuti potrebbe essere facilmente riconducibile al fatto che per i miei tratti somatici, per il mio aspetto, potrei essere scambiata per una ragazza iraniana del sud del Paese. E questo potrebbe aver maggiormente legittimato le spinte di questi individui. Magari davanti a una semplice turista si sarebbero trattenuti...
Non siamo andate alla polizia, caro Luigi, non per quale strana forma di naïvité tu abbia voluto sottolineare, ma perché siamo entrate in Iran dicendo che eravamo due dipendenti di un’agenzia di viaggi, e non volevamo in nessun modo che la nostra vera professione si svelasse. Probabilmente, dicendo che siamo giornaliste, avremmo fatto un viaggio molto più “sicuro”, con un bello stringer gentilmente offerto dal regime, ma non avremmo potuto vedere molto delle cose bellissime, e delle esperienze straordinarie che ci ha regalato il Paese (tra tutte, per me, il matrimonio a cui abbiamo assistito nel piccolo villaggio di Toudeshk). Abbiamo semplicemente scelto di fare un altro tipo di viaggio, un viaggio che peraltro nasce per puro piacere, e non per lavoro. Ecco perché, al ritorno, abbiamo deciso non di farne un reportage, un articolo, un servizio tv ma un semplice post (pubblicato peraltro su un blog personale). Perché era nostra intenzione pubblicare un resoconto di episodi in viaggio per chi viaggia, ed è donna come noi: di quei resoconti che – con la semplicità di tante indicazioni contenute in una guida, o in un blog di viaggio – esponesse semplicemente, e schematicamente, quanto accaduto. Non posso credere che chi come me ha fatto di quella parte di mondo un pezzo di vita, e soprattutto il cuore della propria formazione, in fondo giudichi male chi si permette di scriverne senza farne, si può dire, una pubblicazione accademica. Come dire: se non conosci, taci. Cosa avremmo dovuto fare? Cercare di sintetizzare la storia dell’Iran in un post? Scrivere delle 20 e più dinastie che dai tempi dell’espansione araba in Mesopotamia ai giorni nostri si sono susseguite nella storia della Persia per sottolineare che abbiamo il pedigree per poterne anche solo parlare? Procedere in diagonale dal confine nord-occidentale con la Turchia alla costa sud-orientale del mare di Oman (la stessa distanza che separa Londra da Atene) prima di poter scrivere un post che si intitola, non “IL NOSTRO VIAGGIO IN IRAN”, ma “
Due donne sole in Iran: quello che gli uomini non dicono”? Cosa avremmo dovuto fare? Visto che siamo giornaliste, e conosciamo l’Italia e la facilità con cui certe argomentazioni possono essere strumentalizzate, non scrivere quello che ci era capitato per non “infangare” un Paese? Il rischio delle strumentalizzazioni a cui possiamo esporci non è un rischio che corre solo chi fa il giornalista, ma tutte le persone che, a prescindere dal lavoro che fanno, non sono oneste intellettualmente. Perché è questo che conta poi davvero nella vita. Noi abbiamo scritto un post come Giulia Innocenzi e Maddalena Oliva. E tu hai risposto come Luigi Farrauto. Io non vengo a sindacare sul tuo essere esperto in wayfinding, tu però – devo dire, in buonissima compagnia – ti permetti di farlo sul nostro essere giornalista (basterebbe poi googlare un po’, e si scoprirebbero magari tante cose che eviterebbero tweet e commenti di cui poi imbarazzarsi).
Sai qual è la cosa che più mi ha colpito, Luigi? Il fatto che per le persone con cui siamo entrate in contatto in Iran – al netto di pochissime eccezioni – a fronte del racconto delle nostre disavventure (ovviamente molto edulcorate, per non urtare le sensibilità e le convenzioni di alcuno), la reazione fosse per lo più di censura, sì, la chiamerei proprio così. Un grande silenzio, gli occhi bassi, il sottolineare che sono cose che succedono ovunque, e l’argomento liquidato in 10 – e dico 10 – secondi, con l’aggiunta finale: “Per favore, quando tornate in Italia, non raccontate…”. Ecco perché anche io ho deciso di scrivere. Perché potrebbe anche essere stato un semplice caso, una semplice sfiga, oppure no… ma se ne deve poter parlare.
Se ti fai un giro sulla rete, o se leggi le tanto famose guide per viaggiatori zaino in spalla (ovviamente il capitolo della Lonely “Donne sole in viaggio” l’abbiamo consultato, ma ti ringrazio per esserti preoccupato di segnalarcelo), non c’è traccia di alcun tipo di disavventura che riguardi una donna che decide – senza accompagnamento di un uomo, di una guida, di un tour operator – di visitare il paese in solitudine. Solo dopo aver smanettato un po’ si trova un video di una giornalista olandese che riporta problemi molto simili a quelli in cui siamo incappate. Questo, secondo il mio modestissimo parere, è per due motivi: donne che viaggiano sole in Iran si contano col lumicino, ma, soprattutto, c’è sul tema una censura – se non, peggio, autocensura – fortissima. Della donna non si deve parlare. Meglio non parlare.
L'islam, come ben sai, è tutt’altra cosa. Questo non toglie però che in Iran i governanti molte volte, negli ultimi trent’anni, abbiano forzato le tradizioni dello sciismo per sottometerle alle esigenze della politica. E questo non immagini nemmeno in quanti, in questi giorni, ce lo stiano ricordando: quante donne iraniane, quanti dissidenti... ma questa è un’altra storia. E io mi sono già dilungata tantissimo.
Tutto il resto fa parte di un circo politico-mediatico a cui forse non sarò mai fino in fondo abituata, e in cui tutti, in un modo o in un altro, ne facciamo parte. Accettare in silenzio sempre, però, non si può. Specie se gli attacchi vengono da chi usa la maschera di studi in relazioni internazionali, o amicizie, o fratellanze e parentele, per insultare. Perché mettere in dubbio una violenza subita, anche solo dileggiandola, è già un insulto. Anzi: è più di un insulto.